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La storia dei pastori peloritani in un libro del Prof Nino Quattrocchi





Antonino Quattrocchi nasce nel 1962 a Bafia (Messina). Dottore in Scienze Forestali, libero professionista, nonché docente ordinario di Estimo e di Scienze Agrarie presso gli istituti tecnici e professionali superiori della zona, si occupa di ricerche storiche e genealogiche e del recupero dei beni etno-antropologici. Dal 2003 è giornalista pubblicista. Ha scritto su diverse testate giornalistiche, tra cui ilCorriere del Mezzogiorno, Centonove, La Gazzetta del Sud, La Repubblica edizione Palermo, Artemisia News, La Città di Barcellona Pozzo di Gotto, Comunità, Ipa Italia e Simun Terre del Longano. E’ stato coautore de La Magia del fare (Edizioni Oikos, Museo Etnostorico “Nello Cassata”, vol. 2, maggio 2003). Lo abbiamo intervistato per sapere qualcosa di più della sua ultima opera Tra i Bbuscaìni della Foresta di Zafaràna. Una comunità dei Peloritani lignificata nelle sculture di don Peppino Catalfamo da Bafia (Edizioni Quattrocchi, Barcellona Pozzo di Gotto, gennaio 2014, € 15, Isbn: 978-88-909470-0-1)
Com’è nata l’idea di un’opera sull’antica comunità della Foresta di Zafaràna e come si è sviluppata nel corso del tempo?
“Qualche annetto fa mentre per un altro lavoro indagavo sulla storia dell’antico Piano di Milazzo – ossia di quel vasto territorio esteso pressappoco da Tindari a Villafranca e dal mar Tirreno al crinale dei Peloritani – mi sono imbattuto in una serie di avvenimenti che ave-vano dell’incredibile e che a un certo punto, data la loro particolare rilevanza, ho ritenuto doveroso pubblicare.

Quei fatti riguardavano le traversie patite da una comunità di contadini e di pastori che per millenni aveva vissuto all’ombra della Foresta della Zafaràna, un esteso feudo situato in prossimità della dorsale peloritana e del quale le notizie archivistiche si spingevano fino al basso medioevo.
Le circostanze svelate mi hanno poi spinto ad approfondire quei contenuti con importanti documenti d’archivio e con inedite memorie tramandate dalla tradizione orale.
Tassello dopo tassello ho quindi ricostruito il travagliato vissuto di quella bella comunità che viveva in quell’arcano frammento della Foresta Linaria un tempo ammantata su buona parte della provincia di Messina.
I Buscaìni di Zafaràna, così come ddii gintùzzi venivano allora intesi, erano gli abitanti dei boschi. Essi in un’epoca antichissima avevano vissuto liberi nelle ormai dimenticate Commùni – una sorta di società di tipo comunista nella quale non esisteva la proprietà privata – mentre in seguito sono stati costretti ad arrendersi alle dure leggi feudali.
A quelle leggi che a garanzia della loro sopravvivenza prevedevano, nonostante tutto, il mantenimento, ma in determinate zone di ogni feudo, delle cosiddette terre comuni. E un retaggio di quei residui ‘privilegi’ a favore di quei naturali all’epoca erano rappresentati, fra i tanti, dai diritti di pascere gli animali, di ghiandare e di legnare (poi nel corso del XIX secolo aboliti), ma anche dal diritto di cacciare e di raccogliere le erbe selvatiche, i funghi e le lumache (questi ultimi, benché con certe limitazioni, sono ancora in vigore).
Ed è così che, passo dopo passo, ha preso vita Tra i Bbuscaìni della Foresta di Zafarana, nel quale la storia è vista da una angolazione insolita: quella di quei poveri Buscaìni che per essere stati a lungo vessati sono da accostare ai Vinti di Giovanni Verga, ma anche ai Cafòni di Ignazio Silone”.
Perché hai scelto la figura simbolica di don Peppino Catalfamo per raccontare la storia delle “genti peloritane”, che hanno animato la “Foresta della Zafarana”?
“Don Peppino Catalfamo – che dai suoi tanti fratelli Buscaìni è oggi detto il Magnifico – è indubbiamente il personaggio più importante di questo mio saggio. Egli, in quanto figlio della Foresta di Zafaràna, è il cantore dei sentimenti di quel mondo arcano oramai duramente fagocitato dai vortici del progresso tecnologico.
Don Peppino è, però, purtroppo uno degli ultimi artisti di quell’Arte che dagli specialisti, forse in maniera riduttiva, è definita Arte Primitiva ma anche Arte dei Pastori. Ed egli nelle vesti di esperto artista autodidatta ha l’indubbio merito di essere riuscito a materializzare nel legno, così come nella pietra, l’anima e i sentimenti più genuini di quel mondo. Tant’è che le sue numerose sculture estratte dalla materia grezza più coll’intelletto che colle mani, conservano, quasi fossero mummificati, i segni di una cultura antichissima originata, secondo gli esperti, dalla civiltà di Stentinello. Su quel sapere poi nel tempo si sono stratificate, come se fossero state sospinte da una folata senza fine di vento, le culture di quei popoli venuti da lontano alla cui mercé è stata sottoposta la nostra Terra.
In questo lungo viaggio senza tempo il nostro don Peppino è accompagnato dal padre, pure lui un figlio della Foresta di Zafarana, il quale, nelle inconsuete vesti di araldo, ci rivela le gesta più lontane di quelle genti peloritane facendo riaffiorare dal profondo di uno scrigno quasi magico spaccati di vita bucolica che si intrecciano con i grandi avvenimenti della storia della nostra Isola.
Quello dû zzu Pèppi ‘u Cavalèri è, quindi, un racconto nel racconto, le cui parole svelate al tepore di un antico focolare di contrada Cavallaro penetrano il tempo e mettono a nudo lo stato di un popolo alla continua ricerca del proprio io e della propria identità.”
Per quale motivo hai deciso di mettere insieme nella tua opera tre tipologie testuali diverse, il racconto, l’intervista e la ricerca storica, per raccontare il mondo, l’arte primitiva e le origini dei ‘pastori’ peloritani?
“Per raccontare quel turbinio di vicende sin dall’inizio ho deciso di abbandonare lo schema classico dei libri storici, preferendo, invece, una formula in grado di dare voce a chi voce non ha mai avuto. Una formula forse inconsueta, ma di sicuro più accattivante nell’approccio alla lettura di quel mondo e certamente più efficace nel far riemergere dall’intimo di ognuno di quei tanti Buscaìni i sentimenti più reconditi.
Al racconto storico delle vicende più lontane svelate dalla nostalgica voce dû zzu Pèppi ‘u Cavalèri, segue una lunga intervista al nostro Magnifico, il quale prima di svelarci i segreti dell’Arte Primitiva ci pone di fronte il dramma che ha attraversato la comunità buscaìna della Foresta di Zafarana negli anni a cavallo dell’ultima Guerra. Dramma poi culminato con l’esodo di quelle centinaia e centinaia di animelle verso le fumose ciminiere di città lontane da quella loro Foresta.
Il compito di chiudere questo mio saggio – dove mito e storia si intrecciano e si confondono – è stato affidato ad un’inconsueta indagine che con rigore ricostruisce, da un punto di vista meramente storico, la secolare struttura feudale del territorio a monte di Bafia, Catalimita, Castroreale e Santa Lucia del Mela, proprio quell’estesa area abitata dagli ultimi Buscaìni”.
Quanto è stato complesso il lavoro di ricerca delle immagini, delle carte geografiche e della ricostruzione degli alberi genealogici di intere famiglie, che hai riprodotto e ricordato con grande cura di particolari all’interno di questa interessante opera?
“Dai fatti raccontati emergono le grandi storture della società feudale che ha purtroppo caratterizzato il nostro hinterland – e non solo – fino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso e alle quali, per la maggior parte, si deve imputare la spoliazione di un territorio e la conseguente migrazione dei suoi abitanti verso altri luoghi certamente meno avari.
Per quantificare quest’ultimo fenomeno si è stato necessario censire quei tanti cannoli di fumo che da quelle centinaia e centinaia di barràcche e dipagghiàra si innalzavano verso il cristallino cielo del buon Peloro. Da qui l’individuazione sulle carte topografiche dell’Istituto Geografico Militare Italiano di quelle innumerevoli contrade della Foresta di Zafarana e dei suoi feudi limitrofi, oltreché l’anomalo rivelo di tutte quelle genti redatto in dialetto e impreziosito col recupero dei soprannomi di ognuna di quelle famigliole (le classiche ‘nngiùrie).
Le immagini che corredano il libro, invece, costituiscono un’altra importante tessera di quello straordinario mosaico. Esse, secondo il mio giudizio, hanno il pregio di far emergere la straordinaria valenza delle sculture di don Peppino Catalfamo – tra l’altro ‘fotografato’ da Paola Formica in un bel disegno – che nella sue maschere è riuscito a trasmettere tutta la sensibilità, oltreché l’umanità, dei tanti personaggi mitici e reali di quel mondo; mentre nei raccàmi a punta di coltello sui legni più duri della Foresta ha imprigionato un sapere che giunge dagli albori della nostra civiltà. Simbolici, infine, i due bei disegni usciti dalla matita di Pasquita Pollicino di Milazzo che in apertura e in chiusura corredano il libro”.
Descrivimi le sensazioni che hai provato viaggiando a ritroso nel tempo ed immergendoti nella vita e nel triste destino degli abitanti della foresta
“Indagare nella storia di un territorio e delle sue genti indubbiamente consente ad ogni ricercatore di godere della bellezza del sapere antico, il più delle volte custodito in documenti tarlati e scoloriti dal tempo, mentre in altre circostanze si trova incapsulato nei meandri della memoria umana. Quel sottile piacere della scoperta induce lo studioso ad andare sempre oltre – anche quando il classico ago nel pagliaio risulta introvabile – per moltiplicare le emozioni e le conoscenze.
Riguardo al mio studio, devo confessare, spesso alle sensazioni di piacere per la scoperta si sono, purtroppo, accavallati momenti di sconforto dovuti alla drammaticità degli accadimenti”.
Del tuo libro, oltre che scrittore, sei anche editore. Che cosa ti ha spinto a questa scelta?
“Nel corso della stesura di Tra i Bbuscaìni della Foresta di Zafaràna ho maturato la scelta di investirmi del peso di editare il mio saggio e nel contempo di curarne la diffusione, oltreché la promozione: una gravosa responsabilità la mia, esercitata comunque sempre nell’ambito delle opportunità che le norme in materia danno agli autori.
Che cosa mi ha spinto a questa scelta? Il carattere spiccatamente territoriale del mio studio”.
Quali sono le maggiori difficoltà che un autore può trovare nel-la ricerca di una casa editrice e quali sono poi i mezzi più adatti per la promozione della sua opera una volta pubblicata?
“Le case editrici, come è noto, sono delle imprese e in quanto tali non possono non badare al profitto. Esse di conseguenza si devono muovere in ambiti territoriali molto vasti per garantirsi nicchie di mercato sempre più redditizie. In un simile contesto gli autori esordienti, spesso con le loro microstorie, hanno purtroppo spazi di manovra molti ristretti.
La promozione, ai fini della diffusione di un’opera, riveste sempre un’importanza rilevante. Per fortuna da qualche anno a questa parte le nuove frontiere della comunicazione consentono anche agli autori esordienti una certa visibilità: buoni esempi sono Facebook, Google libri, le vetrine delle librerie online, oltre a tutte le altre ‘diavolerie’ informatiche.
Tuttavia, il classico passaparola o le intramontabili presentazioni al pubblico non hanno ancora perso lo smalto di un tempo. Naturalmente l’apparire nella vetrina o nello scaffale di una libreria, ma anche di una edicola, conserva intatto il fascino dell’approccio immediato e diretto col libro, essendo possibile accarezzare la carta, sentire il profumo dell’inchiostro ed entrare subito in contatto con la parola scritta”.
Una piccola anticipazione sui tuoi progetti futuri?
“Ho in corso la stesura di un altro libro, sempre a carattere storico, nel quale ricostruisco le vicissitudini di un piccolo cenobio di rito bizantino un tempo ricadente nel feudo di Santa Venera di Vanèlla, lungo il margine occidentale della Foresta di Zafaràna, e di cui le prime notizie risalgono addirittura al 1131, quando sulle balze e nelle vallate dei Peloritani, ma anche nel resto del Val Dèmone, vi era un punteggiare di monasteri italo-greci, segno della notevole importanza allora assunta in Sicilia dal monachesimo orientale. Il titolo ed il sottotitolo sono già decisi: Sui sentieri dei monaci di Vanèlla. I cenobiti italo-greci nella storia dei Peloritani”.
Fonte Web
Autore: Flaviana Gullì.

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