di Filippo Russo
L'ennesima strage di migranti e noi, qui, sordi:
"Se uno muore non importa a nessuno purchè sia sconosciuto e lontano". Avevo scritto per Natale un articolo poi rimasto nel cassetto. Lo propongo ora, perchè, soprattutto oggi, sento il bisogno di essere vicino a quanti costruiscono ponti e non innalzano steccati. Ma anche le parole più tenere sembrano, oggi, disperdersi nel vento...
Come passare all’altra riva
Mi passa accanto. Ha gli occhi grandi e azzurri come il cielo del suo continente, un sorriso largo e dolce come un’oasi del deserto che ha attraversato, mani delicate o callose ma sempre preziose perché hanno accordato uno strumento musicale o stretto un martello o una zappa, mani pronte a dare carezze, a stringere quelle di un amico, ad accompagnare un bambino. È nera, la sua pelle… è mio fratello. E a me che non so il suo nome piace pensare che si chiami Talib, che in arabo significa “colui che ricerca”, perché questo giovane uomo ora sdraiato su un cartone, vicino al muro della stazione, o che insieme ad altri compagni sta seduto sulla panchina di una piazza fredda e impassibile, come un seme che non può attecchire in quella terra, grumo d’umanità chiuso in un linguaggio incomprensibile a orecchie ignare, immerso in ricordi che certo urgono con impeto nelle tempie, con sogni da qui sempre più lontani dal materializzarsi, questo giovane, che sicuramente, nel posto da cui è partito, e bisogna perciò chiedersi perché, altro voleva che non questa vita stenta e senza luce, mi fa pensare al suo carico di speranze per un futuro più roseo ora svanite, e anche alle cause di una sorte, per lui, così avara.
Leggo pure sui giornali che sono settecento i bambini migranti morti quest’anno in mare, “strage silenziosa” che mi fa dire che, questo Natale, il volto di Gesù Bambino sarà proprio il loro, perché il più indifeso, il più povero, il più bisognoso d’amore. E mi vengono in mente le parole del Vangelo: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo” (Mt 2, 13). Anche Gesù ha vissuto, dunque, la condizione dell’emigrante. E poi le altre parole del Vangelo: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt,25,35). La strada per il credente è così tracciata.
Non bisogna lasciarsi vincere dall’indifferenza, non bisogna che un fiume invalicabile scorra tra noi e loro, ragazzi uomini e donne dalla pelle nera, bambini fragili e inermi. Bisogna, invece, impegnarsi per costruire ponti, tendere la mano, ritrovare (“anche noi, dunque, alla ricerca”) nel volto “nero” di quel ragazzo venuto da chissà dove, fuggito da chissà che cosa, gli stessi “segni” di umanità che attraversano i volti dei nostri ragazzi; per accendere negli occhi spauriti dei bambini stranieri il sorriso dei nostri bambini. È necessario camminare insieme come fratelli, raccogliendo l’invito di Gesù ai discepoli: “Passiamo all’altra riva”. Ce lo ha ricordato pure papa Francesco, nella prima udienza generale dopo il viaggio in Centrafrica. “Passare all'altra riva, in senso civile - ha detto - significa lasciare alle spalle la guerra, le divisioni, la miseria, e scegliere la pace, la riconciliazione, lo sviluppo… ma questo presuppone un passaggio che avviene nelle coscienze, negli atteggiamenti e nelle intenzioni delle persone”. Riconversione che interessa gli occupanti delle due rive: noi e loro. L’incontro degli uomini è sempre un incontro di anime
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